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P. Albert Vanhoye, S.J.

R. I. P.
Card. R.P. ALBERT VANHOYE, S.J.
(1923-2021)

S.E. il cardinale Albert Vanhoye, professore emerito di esegesi del NT, è morto a Roma nell'infermeria della Curia S.J. il 29 luglio 2021. Era nato il 24 luglio 1923 a Hazebrouck, una cittadina del nord della Francia. Entrato nella Compagnia di Gesù il 12 settembre 1941, emise i primi voti il 15 novembre 1944. Compì i suoi studi alla Sorbonne, Parigi (1945-46: Licenza in Lettere) e negli Scolasticati SJ di Vals-près-le-Puy, Francia (Filosofia: 1947-50) e di Enghien, Belgio (Teologia: 1951-55). Il 25 luglio 1954 fu ordinato sacerdote.
Il 18 ottobre 1956 si iscrisse al Pontificio Istituto Biblico, conse­guendo la Licenza in S. Scrittura il 7 giugno 1958 (summa cum laude) e poi il Dottorato con la tesi La structure littéraire de l’Épître aux Hébreux, difesa il 21 dicembre 1961 (summa cum laude); moderatore era il P. Stanislas Lyonnet e secondo relatore il P. Maximilian Zerwick.
Dopo aver insegnato per tre anni (1959-62) esegesi del NT a Chantilly (Francia), nel 1963 iniziò la sua attività di insegnamento al Biblico, che si protrasse per trentacinque anni (fino al 1998). Fu nominato professore ordinario il 4 dicembre 1967.
Aveva insegnato corsi di esegesi della Lettera agli Ebrei e di Lettere Paoline; corsi di metodologia e corsi di teologia biblica. Aveva anche tenuto seminari sui vangeli, le lettere paoline e l’Apocalisse.
Durante la sua lunga attività di insegnamento diresse 29 tesi di dottorato e di 16 fu secondo relatore. Fu direttore anche di una decina di tesi all’Università Gregoriana.
L’attività di insegnamento fu accompagnata anche da un’intensa attività di ricerca con relative pubblicazioni . Alcune tra le sue principali pubblicazioni: La structure littéraire de l’épître aux Hébreux (1963). Situation du Christ. Épître aux Hébreux 1 et 2 (1969); Prêtres anciens, prêtre nouveau selon le Nouveau Testament (1980); La Lettre aux Hébreux: Jésus-Christ, médiateur d’une nouvelle alliance (2002); L’épître aux Hébreux, un prêtre différent (2010; pubblicata contemporaneamente in 4 lingue); I carismi nel Nuovo Testamento (2011).
L’attività di P. Vanhoye a servizio dell’Istituto si concretizzò anche in vari incarichi da lui ricoperti con la consueta dedizione e scrupolosità:
– Redattore di Biblica per il NT 1969-1984;
– Redattore capo di Biblica (1978-1984);
– Direttore di “Analecta Biblica” (1980-2007);
– Decano della Facoltà Biblica (1969-1975);
– Rettore (1984-1990).
È noto anche il servizio ecclesiale offerto da P. Vanhoye in vari organismi della S. Sede:
– Membro della Pontificia Commissione Biblica (1984-2001);
– Segretario della stessa Pontificia Commissione (1990-2001);
– Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (dal 1980);
– Consultore della Congregazione per l’Educazione Cattolica (dal 1978);
– Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede (dal 1990).

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Per completare il profilo del Card. Vanhoye riportiamo la testimonianza del professore R.D. Franco Manzi, della Facoltà Teologica del­l’Italia Settentrionale, il quale aveva avuto il prof. Vanhoye come direttore sia della tesi di Licenza che di quella di Dottorato, difesa nel 1996 («Melchisedek e l’angelologia nell’Epistola agli Ebrei e a Qumran») .

 

Un interprete affidabile della Parola «viva» e «tagliente»
Sarebbe arduo ricordare i giovani che, nel lontano ottobre 1991, varcarono con me, per la prima volta, il portone del Pontificio Istituto Biblico di Roma, coltivando un grande sogno: imparare l’arte del biblista. Nei secoli d’oro dell’arte italiana, i giovani talenti facevano a gara per entrare nelle botteghe dei rinomati pittori e scultori di Firenze, Roma o Milano: era l’unico modo per apprendere un’arte. Allora, avevamo la stessa ambizione: cercavamo maestri che ci insegnassero a far risuonare la «voce» di Dio (Eb 3,7.15.16; 4,7; 12,26) nelle antiche pagine sacre. E lì, al Biblico, eravamo al posto giusto. Fu così che, grazie alla “tradizione orale” dei preti-studenti del Pontificio Seminario Lombardo, in cui vivevo, mi trovai ben presto alla scuola del compianto p. Albert Vanhoye.
Non è questo il luogo per sintetizzarne la brillante carriera acca­demica ed ecclesiastica. Certo è che, limitandomi al mondo variopinto degli studenti del Biblico, in quegli anni tutti sapevamo che sulla Lettera agli Ebrei l’autorità indiscussa era p. Vanhoye. Tanto che circolava la battuta che, escluso san Paolo, fosse lui l’autore di questo scritto anonimo! Effettivamente, era impressionante la consapevolezza che in quei corsi avevamo di imparare a fare un’esegesi saldamente fondata nel testo scritturistico. L’analisi della struttura letteraria della Lettera agli Ebrei, ma anche della Lettera ai Galati e delle Lettere ai Corinzi non si arenava mai nelle secche delle indagini formali, dei tecnicismi filologici o dei neologismi fini a se stessi. Al contrario, era portale d’ingresso ai contenuti densi dell’originale cristologia sacerdotale di Ebrei, del nucleo incandescente della giustificazione per la sola fede in Galati, della spinosa questione ecclesiologica dei carismi nella Prima Lettera ai Corinzi, dell’appassionata concezione del ministero apostolico nella Seconda ai Corinzi… Era arte! Da biblista cattolico, p. Vanhoye insegnava con umile sicurezza a interpretare la sacra Scrittura nell’alveo della viva tradizione ecclesiale. Era exégèse en Église – secondo la definizione di un rinomato biblista domenicano –, la quale, senza perdere nulla della serietà metodologica, evitava i rischi dell’exégèse en Sorbonne, ben conosciuta da p. Vanhoye, che da giovane aveva conseguito la licenza in Lettere proprio alla Sorbona (1945-1946).
Difatti, a scuola avevamo la nitida percezione che il Prof. Vanhoye fosse, prima di tutto, un uomo di fede, che, da buon figlio di sant’Ignazio di Loyola, aveva fatto dell’esegesi il suo modo di servire la Chiesa, tenendo sempre fisso lo sguardo su Gesù, «il pioniere e il perfezionatore della fede» (Eb 12,2). Il resto era vissuto da lui con la genuina “indif­ferenza”, tipica della spiritualità ignaziana, a partire dalla sua stanza umilissima, che mi capitò di visitare in un incontro sulla tesi dottorale, da lui magistralmente diretta. In effetti, la mia indagine, discussa nel dicembre 1996, fu una delle ben 29 tesi da lui guidate al Biblico come moderatore, senza contare le 16, in cui fece da secondo relatore. La sua maestria da “vecchio lupo di mare” dell’esegesi cattolica, la sua precisione nelle correzioni e la sua puntualità nella restituzione dei capitoli corretti erano segni cristallini di una dedizione evangelica all’insegnamento e, più ancora, a noi alunni. Asciutto nel rapporto personale, ma tutt’altro che anaffettivo, tracciò l’itinerario del mio lavoro di dottorato, lasciandomi comunque indagare per sentieri nuovi, come un padre saggio – un Doktorvater, appunto –, consapevole che non ha senso né plagiare il figlio né sostituirsi a lui.
Gli incontri con lui sulla tesi non duravano mai più di un’ora. Del resto, sapevo che la sua vita era intensissima, e non solo per gli impegni accademici. In quegli anni, la sua obbedienza perinde ac cadaver lo portò a ricoprire incarichi di sempre maggiore responsabilità: già decano della Facoltà biblica del Pontificio Istituto Biblico di Roma (1969-1975) e poi rettore dello stesso Istituto (1984-1990), era stato nominato segretario della Pontificia Commissione Biblica (1990-2001), della quale era già membro dal 1984. Sotto la sua direzione, la Commissione Biblica pubblicò due documenti su questioni allora molto attuali di metodologia e di ermeneutica biblica: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana (2001). Chi ha studiato i contributi di p. Vanhoye riconosce facilmente come quei due documenti rispecchiassero il suo stile preciso ed equilibrato, ma soprattutto i punti salienti del suo insegnamento. Il più significativo è, a mio parere, il modo di compren­dere il compimento dell’Antico Testamento nel Nuovo attraverso il triplice livello della continuità, della discontinuità e della progressione. I suoi studi anteriori sulla Lettera agli Ebrei e, in specie, sul rapporto tra l’antica e la nuova alleanza, sono confluiti sia nel primo che soprattutto nel secondo documento, che offrivano un approfondimento originale e sostanziale dell’autorevole dottrina della costituzione conciliare Dei Verbum.
Non stupisce, allora, la dignità cardinalizia, con cui papa Benedetto XVI desiderò insignire l’ottantaduenne gesuita, il 24 marzo 2006: era un semplice segno di gratitudine ecclesiale per un servizio fedele e competente al corpo di Cristo. A ogni buon conto, p. Vanhoye fu sorpreso della nomina: stando a una sua confidenza, quando papa Benedetto l’aveva convocato per comunicargliela, rimase un po’ indispettito perché non aveva con sé il Nuovo Testamento greco per rispondere alle domande esegetiche, che immaginava che il Pontefice gli avrebbe rivolto. Invece, il Papa gli espresse la decisione di crearlo cardinale, il che portò inevitabilmente p. Vanhoye a rispondere, con accresciuto zelo apostolico, a innumerevoli inviti di predicazione, di cui mi faceva cenno, rispondendo ai miei auguri natalizi e pasquali.

Condividendo la grande riconoscenza della Chiesa verso questo gesuita dalla fede esemplare (cfr. Eb 13,7), che visse i suoi 98 anni all’insegna del motto cardinalizio – Cordi Tuo unitus –, gli auguro con un sorriso filiale di discutere amabilmente, sui vialetti del paradiso, con l’autore della Lettera agli Ebrei!

Testo pubblicato nel bollettino dell’Associazione ex-alunni/e del PIB, Vinea Electa (2021), pp. 4-6.

 

L’elenco completo degli scritti, fino al 2006, si trova nell’appendice alla Festschrift che gli fu dedicata in quell’anno: «Il Verbo di Dio è vivo». Studi sul Nuovo Testamento in onore del Cardinale Albert Vanhoye, S.I., a cura di J.E. Aguilar Chiu – F. Manzi – F. Urso – C. Zesati Estrada (Analecta Biblica,165; Roma 2007, pp. 632).