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Il progetto culturale della Chiesa italiana e la Bibbia

Conferenza di Mons. Betori (festa dell'Istituto 07/05/2003)

1. Spiritualità, missione e cultura

A metà degli anni ’90, ripetendo un’esperienza già felicemente proposta nei due decenni precedenti, le Chiese in Italia si ritrovarono, a Palermo, in un Convegno ecclesiale nazionale, che può essere preso come riferimento di una presa di coscienza significativa della situazione odierna del cattolicesimo italiano.

Alle spalle del Convegno stavano una serie di tensioni, anche ideologiche, che avevano lacerato la comunità cristiana. Si trattava di forti tensioni – tra le aggregazioni ecclesiali, tra queste e le parrocchie, tra progressisti e tradizionalisti, ecc. –, che però erano andate affievolendosi negli ultimi tempi, dopo aver toccato il loro vertice a metà degli anni ’80. Nel tempo più vicino il tessuto pastorale era stato percorso invece dal sovrapporsi di temi, di ambiti, di impegni, tutti percepiti come urgenti: chi reclamava il primato della famiglia nell’azione pastorale e chi spingeva per dare precedenza ai problemi del mondo giovanile; chi si schierava per la centralità del tema delle comunicazioni sociali e chi reclamava priorità all’agire solidale verso il mondo delle antiche e delle nuove povertà, ecc.: un giustapporsi di priorità, ciascuna appena connessa con le altre, non poche volte percepite in termini concorrenziali.

Ma a Palermo tutto questo fu spazzato via dal sorgere di un nuova esigenza, che possiamo definire come esigenza di sintesi e di essenzialità, ma anche di più coraggiosa presenza nella storia – incontrandosi quindi con l’ispirazione che sta dietro alla Tertio millennio adveniente e poi alla Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II –, che va a toccare l’essere e la missione del cristiano e della Chiesa.

Sul primo versante questa esigenza si traduce nella richiesta di riconoscere l’assoluto primato della spiritualità rispetto ad ogni altro “fare” della e nella Chiesa. La spiritualità diventa parola chiave del cattolicesimo odierno, seppure non priva di equivoci, a cui il Convegno cercò di porre rimedio, ribadendo che si tratta di una spiritualità che deve incentrarsi sulla persona di Cristo, che deve tradursi come vita nello Spirito di Cristo. Una spiritualità, pertanto, storica, personalizzata, di comunione, declinata secondo il termine della “reciprocità”, che trova espressione sintetica in una formula: «Contemplativi nella storia e memori del mondo davanti a Dio» (Con il dono della carità dentro la storia, 11).

Sul secondo versante a Palermo emerse l’urgenza di una “estroversione” della Chiesa, una riaffermazione della sua finalità missionaria. Ma anche in questo caso non si tratta di una qualsiasi missionarietà, bensì di quella che recupera il senso forte della verità, per aprirsi con una precisa identità al dialogo e all’incontro con l’uomo contemporaneo, nella consapevolezza che la Parola ha in sé capacità di incarnazione in ogni tempo e in ogni luogo.

All’incrocio tra queste due esigenze si apre lo spazio proprio del “progetto culturale”. Interpretando infatti l’esigenza di spiritualità come la traduzione in chiave religiosa della ricerca di senso che percorre la società contemporanea e concependo la missione come l’esplicitazione della forza che promana per se stessa dalla verità da cui si è posseduti, ecco che la cultura viene a costituire quasi il tessuto su cui la verità del Vangelo si disvela come significativa rispetto alle domande dell’interlocutore, e il senso che costui ricerca appare raggiungibile solo nei termini della verità. Perché – e ciò va detto contro ogni riduzionismo emozionale, storicistico, ecc. del problema del senso – non c’è senso fuori della verità.

È in questa prospettiva che va collocato il significato del “progetto culturale”: esso si propone di dare organica attuazione alla ricerca di coniugare assieme, in modo riflesso e socialmente rilevante, senso della vita e proposta di fede. Come ripensare la presenza dei credenti nella storia, in questi tempi di post-modernità, cercando di superare i divieti del laicismo, ma anche prendendo atto della situazione di pluralismo? Può il pluralismo della condizione culturale significare la rinuncia alla convinzione di avere in Cristo il fondamento e il modello di una piena umanità? A queste domande il progetto culturale vuole rispondere, assumendo con consapevolezza e in modo programmatico il compito perenne di coniugare insieme fede e cultura.

2. Un rinnovato confronto critico della fede con le forme della cultura diffusa

L’idea di un progetto culturale della Chiesa italiana appare, per la prima volta, nella prolusione del cardinale Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana, al Consiglio episcopale permanente del maggio 1994 a Montecassino. I vescovi ne discussero successivamente nella loro Assemblea generale del maggio 1995. Nel Convegno ecclesiale del novembre dello stesso anno, a Palermo, l’idea fu ripresa e rilanciata. Da allora è stata sviluppata in diverse sedi e da varie componenti.

Orizzonte del progetto culturale era ed è il riconoscimento delle sfide cruciali che la cultura pone oggi alla fede. Proprio raccogliendo queste sfide la fede esprime la sua energia creativa e alimenta il rinnovamento dell’uomo e della società. Obiettivo del progetto culturale è costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza sulle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea (cf. PRESIDENZA DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Progetto culturale orientato in senso cristiano. Una prima proposta di lavoro, 28 gennaio 1997, n. 2). Si tratta di rendere capaci di dire in modo originale e plausibile la nostra fede.

Il punto di partenza e il fondamento del progetto va individuato ovviamente nel significato e nella centralità dell’evento di Gesù Cristo. Mi avvalgo delle parole del cardinale Ruini: «in Cristo […] ci è data un’interpretazione di Dio e dell’uomo, e quindi implicitamente di tutta la realtà, che è così pregnante e dinamica da potersi incarnare nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenendo al contempo la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali e i suoi contenuti di fondo» (card. CAMILLO RUINI, Fede, libertà, intelligenza, in SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE (a cura di), Fede, libertà, intelligenza. Forum del progetto culturale, Casale Monferrato, Piemme, 1998, pp. 15-16).

C’è una intuizione di fondo dietro al progetto, che potrebbe essere così sintetizzata: oggi la Chiesa italiana deve far passare l’evangelizzazione, cioè il suo compito proprio, attraverso un rinnovato e più intenso confronto critico con le forme della cultura diffusa. Stiamo dentro una svolta storica o, comunque, in una fase di transizione piena di incertezze, i cui sviluppi avranno conseguenze significative riguardo alla valorizzazione o all’emarginazione dell’eredità cristiana che ha alimentato e costruito la nostra civiltà. Solo entrando nel vivo del rapporto tra vangelo e cultura è possibile salvare oggi questa eredità e questa fecondità.

Si tratta di una esigenza di sempre, ma che assume urgenze nuove in alcuni momenti della storia. Nel discorso per la festa di sant’Ambrogio del 1995, il card. Carlo M. Martini esprimeva molto bene come questa urgenza si affacciò alla consapevolezza di quel Padre della Chiesa, di fronte all’incontro tra il cristianesimo e la romanità già scossa dalle prime avvisaglie delle invasioni barbariche: «Rifiutando di considerare la saggezza della croce come aliena dai processi della storia, capace solo di suscitare gli eroismi dei martiri o le prodezze ascetiche dei monaci del deserto, egli ha creduto che fosse possibile, facendo lievitare una comunità cristiana con i fermenti evangelici, renderla anche fermento per una cultura e una società» (“Lasciamoci sognare!”, Il Regno-documenti 42 (1997) 113). Mentre uno stanco mondo moderno conta le sue sconfitte e vede apparire nuove e antiche barbarie, mentre la speranza rischia di scomparire dall’orizzonte – sopraffatta da illusioni più o meno drogate e immiserita da una cultura diffusa dei piccoli parziali vantaggi immediati, qui e oggi –, anche per noi si ripropone l’invito a farci carico della fecondità per questo nostro tempo e per questa nostra società del mistero della Pasqua del Signore e della forza innovatrice delle sue Beatitudini: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).

Avvertiva già Paolo VI: la dissociazione tra fede e cultura è il dramma del nostro tempo (cf. Evangelii nuntiandi, n. 20). Ha ribadito Giovanni Paolo II: la crisi spirituale del nostro Paese «raggiunge i livelli profondi della cultura e dell’ethos collettivo» (Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995, n. 4). La radice delle motivazioni storiche del “progetto culturale” sta in questa amara constatazione. Esse ovviamente si accompagnano anche a motivazioni più contingenti. In particolare, il venire meno dell’unità politica dei cattolici rischiava di essere interpretato come la giustificazione di una sorta di “diaspora culturale”, da non confondersi con il necessario pluralismo in cui si incarna il Vangelo. Accettare la logica della “diaspora culturale” significherebbe il venir meno nel cattolicesimo italiano della capacità e del compito di essere “forza incidente” nel tessuto sociale del Paese. Questo, ovviamente, nella consapevolezza che l’incidenza non è frutto di una strategia di occupazione di spazi di potere – culturale, sociale, politico, ecc. –, ma esito di una coerente visione e attuazione del ruolo storico del cristiano oggi in questo ambiente.

L’intuizione circa il ruolo decisivo del rapporto tra fede e cultura oggi, si collega pertanto ad alcuni interrogativi di fondo: sulla qualità evangelica del nostro cattolicesimo, sui suoi tratti peculiari nel quadro del cattolicesimo europeo, sulla sua disponibilità al dialogo con le altre componenti religiose e culturali presenti nell’odierno contesto pluralistico della società, sulle sue potenzialità di proiezione missionaria e, più al fondo, sulla sua capacità di tenuta di fronte ai forti processi di scristianizzazione della mentalità e del costume. Sono riflessioni e preoccupazioni che si esplicitano sempre più come domande attorno alla questione antropologica, rivolte alle connessioni tra i percorsi delle scienze, neurologiche e informatiche in particolare, e la crisi dell’identità corporale-spirituale e la finalizzazione trascendente dell’uomo, e contemporaneamente agli esiti della riduzione emozionale dell’esperienza umana e della frammentazione radicale nell’esercizio della libertà.

Il progetto culturale nasce da queste domande e si alimenta di questa tensione verso una rinnovata capacità di testimonianza e trasmissione del messaggio evangelico della Chiesa italiana in tutte le sue articolazioni. Esso vuole aprire a nuovi interrogativi, che sono eco di questa consapevolezza ecclesiale nuova. Naturalmente al fondo di questi interrogativi c’è una valutazione del cattolicesimo italiano d’oggi, sebbene non sempre esplicitata e argomentata.

3. Un cattolicesimo popolare, devozionale, a forte dimensione sociale e politica

Riassumendo per sommi capi, potremmo dire che il cattolicesimo italiano, nel suo complesso, si caratterizza oggi come un cattolicesimo popolare, un cattolicesimo devozionale e un cattolicesimo che ha sentito molto nel passato e sente forte ancora oggi la dimensione sociale e politica.

È, innanzi tutto, un cattolicesimo popolare. Lo ribadiscono tutte le indagini sociologiche: circa il 90% degli italiani si riconosce nella Chiesa cattolica. Questo tratto popolare del cattolicesimo italiano viene da alcuni visto come un peso, che impedirebbe slanci di qualità; va, invece, colto come un compito. La Chiesa italiana non può a cuor leggero abbandonare a se stessi tanti cattolici, tali almeno per il battesimo, e puntare su un cattolicesimo d’élite, formato di comunità piccole e consapevoli. Deve invece farsi carico della cura della crescita della fede personale, fino al livello della testimonianza, di tanti cattolici di tradizione. È la direzione assunta dagli orientamenti pastorali di questo decennio Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (29 giugno 2001). Si pongono qui delicate questioni teologiche e pastorali, che riassumo in una domanda: che cosa fa o definisce un cristiano? il battesimo, l’esplicita professione della fede, la testimonianza della vita nella partecipazione alla comunità ecclesiale?

Ma gli stessi sociologi che registrano l’imponente dato del riconoscimento della grande maggioranza degli italiani nella Chiesa cattolica, fanno anche rilevare che c’è in loro una notevole divaricazione tra sentimento d’appartenenza e credenze. Ci si dichiara cattolici e magari si frequenta ogni domenica la messa, ma, del tutto consapevolmente, si opera una selezione tra le credenze che la Chiesa propone, sia di ordine dogmatico che di ordine morale: ci si accosta alla comunione e si crede nella reincarnazione; si ammira il Papa, ma si respinge il suo insegnamento nel campo della morale sessuale; ecc. Per quanto tempo questa divaricazione perdurerà senza tradursi in un abbandono o anche solo in un allentamento dell’appartenenza? L’integrazione europea sul piano culturale, oltre che economico e politico, potrebbe avere riflessi dissolvitori della peculiarità italiana circa il tratto popolare del cattolicesimo.

Il secondo tratto che denota il cattolicesimo italiano è il carattere devozionale. Ciò che lega il cattolico italiano alla Chiesa è la devozione: al Signore, alla Madonna, ai santi, quelli della tradizione e quelli di oggi. Si pensi all’impressionante fenomeno della devozione a San Pio da Pietrelcina. La popolarità del cattolicesimo italiano è in buona parte dovuta al persistere di questi legami devozionali.

Potrà reggere questo cattolicesimo devoto alla crescente omogeneizzazione culturale? Non rischia di dissolversi o, comunque, di trasformarsi in un fenomeno di mero consumismo religioso? E, al di là di queste preoccupazioni, non bisognerebbe puntare, in modo più convinto e deciso, nell’esercizio della cura pastorale, su un cattolicesimo che, in linea con l’insegnamento del Vaticano II, abbia più familiarità con la Scrittura, viva la comunione col Risorto nella celebrazione dei segni sacramentali, sia più capace di testimonianza cristiana e di fermento evangelico nella società? Ma questo puntare ad un cattolicesimo “altro” da quello largamente diffuso nelle nostre comunità, non rischierebbe di dissolvere il cattolicesimo popolare per opera proprio della stessa Chiesa, su iniziativa, per così dire, pastorale?

Un terzo tratto, infine, connota il cattolicesimo italiano, cioè il valore che in esso ha la dimensione sociale e politica. Il cattolicesimo italiano vanta una lunga tradizione di impegno politico: essere cattolico ha significato in Italia, per un buon numero di fedeli, scommettersi sul piano civile, impegnarsi nella vita politica, partecipare a una qualche organizzazione con finalità sociale, assistenziale o caritativa in nome della fede cristiana. L’Ottocento cattolico italiano è pieno di fervore e iniziative: credito, cooperativismo, opere pie, ecc. E la partecipazione alla vita politica nel secolo successivo è stata incoraggiata come esercizio esemplare di vita cristiana. Tutt’oggi tanta parte del cattolicesimo italiano si realizza sul piano dell’impegno sociale: le organizzazioni cattoliche di volontariato sono una realtà imponente, che svolge un’ammirevole opera di solidarietà umana nel nostro Paese.

Ma anche qui, non mancano interrogativi e preoccupazioni. In particolare c’è da chiedersi se questo spendersi sul piano della vita civile non rischi di confondere la comunità ecclesiale con una qualsiasi delle agenzie sociali attive nel Paese; se, in particolare, le ragioni ultime ed escatologiche del Vangelo riescano a mantenere il loro primato in un’ottica che si propone, almeno in prima istanza, come prevalentemente orizzontale, che necessariamente va in cerca di mediazioni storiche.

4. Obiettivi e temi del progetto culturale ispirato in senso cristiano

Nel rilevare questi tre tratti – popolare, devozionale, politico-sociale – del cattolicesimo italiano, ho fatto semplicemente una descrizione, non impegnandomi in un’analisi critica. Non posso, però, non rilevare che, invece, sul piano della creatività letteraria, filosofica, artistica, il cattolicesimo italiano risulta povero, quasi incapace di esprimersi. Soprattutto non riesce ad avere peso sugli stili di vita dominanti, non sa far passare la visione cristiana della vita, trasmettere il fermento evangelico nella cultura diffusa di oggi.

Non si vogliono così pesare il comportamento e ancor meno le intenzioni di intere generazioni di pastori e di fedeli. È piuttosto quanto emerge da un progetto ecclesiale e pastorale che per lungo tempo ha potuto contare su una connaturalità tra etica cristiana e indirizzi, anche giuridicamente avvalorati, della vita civile. Ma a questo è succeduta la rottura dell’unitarietà del modello culturale di riferimento e il suo frantumarsi in forme non più correlate con la tradizione cattolica.

Quando si parla di progetto culturale orientato in senso cristiano, si dice innanzitutto l’urgenza di rimediare a questa condizione del nostro cattolicesimo. In particolare si vorrebbe rimediare alla difficoltà di misurarsi con la complessità delle questioni e dei problemi posti dalla costellazione culturale tipica di questo tempo. È una difficoltà cui pare legata quella scarsa capacità di far emergere e proporre la valenza culturale della fede di cui il cattolicesimo italiano oggi indubbiamente soffre e che, comunque, contrasta con il suo consistente radicamento sociale e con la grande ricchezza di iniziative caritative e assistenziali. Difficoltà cui dev’essere collegato anche il particolare disagio del cattolicesimo italiano (non sempre e non interamente per sua responsabilità) a instaurare un dialogo fecondo con i rappresentanti della cultura “laica”, per tanti aspetti così potente ma anche così in crisi nel nostro Paese.

Da simili valutazioni sul cattolicesimo italiano d’oggi nasce l’intuizione secondo cui sembra imporsi oggi alla Chiesa italiana un rinnovato compito di evangelizzazione della cultura e di inculturazione della fede, dal quale possano derivare anche modalità nuove di presenza dei cattolici nella vita del Paese e un loro rinnovato apporto ad essa. È questo compito a definire o almeno a descrivere più propriamente il significato e le finalità del progetto culturale. È un compito che si pone nel solco di quella fecondità della fede che è dimostrata dall’intera storia del cristianesimo e che la Chiesa non può non assumere ancora oggi, perché è un compito che si lega intimamente, anzi non è cosa diversa dalla “cura della fede” che la comunità ecclesiale deve esercitare verso i suoi membri, accompagnandoli nel cammino della loro crescita come credenti.

Questo significa che più immediatamente questo compito mira, in una prospettiva di educazione della fede, a una intelligenza cristiana dei processi storici, al fine di immettere in essi il fermento evangelico. Al fondo, l’esigenza da cui nasce l’idea del progetto culturale è quella di riuscire, ancora oggi e per il nostro Paese, a mediare, in maniera sempre nuova, la visione cristiana dell’uomo nelle situazioni storiche concrete e mutevoli.

Sinteticamente potremmo dire – in riferimento all’analisi dei caratteri del cattolicesimo italiano che ho prima rapidamente tratteggiato – che si tratta di pensare, arditamente e intelligentemente, come accettare la sfida di trasformare il cattolicesimo popolare senza ridurlo a un cattolicesimo elitario e autoghettizzato. Proprio nel progetto culturale sta per noi la chiave di soluzione delle aporie prima denunciate: come salvaguardare il carattere popolare del cattolicesimo italiano, innervandolo però di consapevolezza e coerenza? come mantenere la dimensione personalizzante del vissuto di fede assicurata nella devozione, dandole spessore di verità più profonda mediante un fecondo rimando alla Parola, al sacramento e alla testimonianza? come mantenere viva la dimensione storica del cattolicesimo italiano, senza però farlo scadere a religione civile, a etica condivisibile a prescindere da un riferimento credente?

In questo senso il progetto culturale ha un rapporto stretto con l’ordinaria cura pastorale nelle sue varie forme – la predicazione, la liturgia, la catechesi, ecc. –, che vorrebbe stimolare a rinnovarsi alla luce del compito dell’evangelizzazione della cultura. Ma richiede, anche, un lavoro creativo di persone, gruppi e istituzioni dediti alla ricerca e allo studio, al fine di individuare e sperimentare percorsi innovativi di confronto e di incontro del Vangelo con la cultura del nostro tempo. Su questo orizzonte il progetto si è mosso individuando tre campi di ricerca prioritari, legati a tre istanze di più piena umanizzazione, per i credenti e per tutti.

Anzitutto una più piena cittadinanza all’interno di una società sempre più complessa: è il tema della “identità nazionale, identità locali, identità cristiana”. C’è un nesso intimo e indistruttibile tra identità civile e identità cattolica in Italia. Non ci si può dire italiani a prescindere da queste radici cattoliche che formano l’humus, la storia del Paese. Ma in che senso affermare questa identità? C’è un’ampia area del mondo, della cultura non cattolica che chiede al cattolicesimo di farsi principio etico e anima etica di questa società. Ma la riduzione del cristianesimo a religione civile è una tentazione grave a cui occorre sfuggire. Occorre riproporre l’identità di una esperienza di fede; occorre ridire a questo mondo il Vangelo e non semplicemente un’etica. Al tempo stesso non dobbiamo dimenticare che, per quanto importanti siano le radici, altrettanto lo sono le prospettive, che sono prospettive di mondialità e di interculturalità. Il progetto culturale della Chiesa italiana deve lasciarsi provocare dall’esperienza del Vangelo nel mondo nel creare modelli nuovi di presenza, di riferimento culturale.

Una seconda istanza di umanizzazione consiste in una più esplicita connessione tra scelte personali e comunitarie e strutture della società civile. Così traduco un altro dei temi proposti dal progetto culturale: “libertà personale e sociale in campo etico”. Cosa significa esercizio della libertà personale oggi, in una società democratica? Come si attua l’esercizio della libertà personale nell’odierna società pluralistica? Da una parte c’è la libertà della persona, dall’altra la convenzione sociale e lo strutturarsi istituzionale della società. Qui i problemi oggi esplodono ogni giorno, soprattutto nel campo della bioetica. Gli interrogativi riguardano la retta comprensione del primato della coscienza, la formazione della coscienza in un contesto pluralistico, l’esercizio della propria libertà in una società pluralistica, la connessione tra etica e diritto in una società democratica.

Un terzo tema, infine, è formulato in questi termini: “l’interpretazione del reale: scienze e altri saperi”. In esso emerge il bisogno di una più corretta attenzione alle istanze umane all’interno della civiltà tecnologica. Il progredire delle scienze, rivelando la complessità del reale, ha portato a un duplice esito: da una parte all’offuscamento del concetto stesso di realtà e dall’altra all’indietreggiare delle stesse scienze a favore delle tecnologie. La ragione strumentale prevale sulla ragione finalistica o causale. L’esito personale e sociale di questa complessità è che nella coscienza della gente convivono vecchie impostazioni di scientismo positivista accanto a mentalità acritiche, che si traducono poi in forme magico-superstiziose. Da una parte dobbiamo reagire contro il razionalismo tipico dello scientismo, un razionalismo che non lascia spazio alla fede; dall’altra dobbiamo accorrere in difesa della razionalità. Siamo figli di un umanesimo cristiano che ha risposto alle critiche umanistiche alla fede, ma non si è fatto carico fino in fondo delle critiche scientifiche alla fede. Se per l’umanesimo cristiano potrebbe essere facile ergersi sulle rovine degli umanesimi non cristiani falliti negli ultimi due secoli, meno facile è farsi spazio all’interno del non-umanesimo scientifico, che è l’ottica con cui oggi si trattano le cose e ci si tratta tra noi.

Le tre aree di ricerca non sono ovviamente esaustive del campo di interesse del progetto culturale. Segnalano però gli interrogativi emergenti e li riconducono tutti a quella crisi antropologica che connota il nostro tempo e interroga la fede.

5. Teologia e progetto culturale

Si inserisce qui il discorso dell’apporto della teologia al progetto culturale. Si tratta di un apporto cruciale, non solo a proposito di particolari e pur importanti questioni, come quella dell’appartenenza ecclesiale, cui ho sopra accennato, ma più ampiamente e più profondamente sulla questione di fondo del rapporto del cristianesimo con la cultura intesa in senso antropologico, cui ora accennavo.

Alla riflessione teologica il progetto culturale chiede di caricarsi di un più intenso confronto critico con le forme attualmente dominanti della cultura diffusa. Ma occorre fare una precisazione: fede e cultura non si pongono una di fronte all’altra. Come hanno ben precisato i docenti della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale in un convegno dedicato all’idea del progetto culturale (cf. G. AMBROSIO – G. ANGELINI (e altri), Il progetto culturale della Chiesa italiana e l’idea di cultura, Disputatio 12, Milano, Glossa, 2000), non c’è da un lato una verità del Vangelo immediatamente percepibile dalla coscienza a prescindere dalle forme della cultura, e dall’altro la cultura (in senso antropologico) e le sue forme, in cui sarebbe semplicemente da incarnare la verità del Vangelo. C’è piuttosto la verità del Vangelo che viene raggiunta dalla fede e solo dalla fede di un concreto credente che è sempre inculturato, cioè vive immerso in una determinata cultura, quella che gli fornisce le coordinate principali per interpretare la sua esperienza umana. Ma questo credente, in forza della sua fede, rielabora sempre la cultura di cui vive. La conversione, il volgersi dell’uomo a Cristo, comporta anche una conversione della cultura, una reinterpretazione e rielaborazione della cultura alla luce dell’adesione al Vangelo assunto come criterio ultimo di giudizio.

Questa rielaborazione ha un duplice aspetto: da un lato è critica della mancanza di verità che è presente nella cultura e dall’altro è sviluppo degli elementi di verità in essa presenti. È sempre stato questo il procedimento dell’incontro del Vangelo, cioè, storicamente, dei cristiani, con una cultura. Per chi ha dimestichezza con il percorso della rivelazione biblica si tratta di una verità fin troppo evidente. Si pensi poi al poderoso processo di rilettura critica e di creativa riplasmazione della cultura del mondo antico, realizzato in età patristica. Questo è anche il compito che oggi ci sta dinanzi e che viene evocato dal progetto culturale.

Ma oggi, rispetto al passato, la cultura ha accentuato i caratteri della molteplicità e si presenta come una vera e propria costellazione culturale, con problemi non semplici di interpretazione e valutazione. In essa – diversamente da quanto accadeva per i Padri della Chiesa di fronte alla cultura del mondo antico – sono presenti, magari sotto la coltre della secolarizzazione, molti elementi dell’annuncio cristiano, che bisogna riscoprire, per farne punti di forza di un dialogo con la cultura cosiddetta “laica”, che si è costruita in età illuministica e si è sviluppata in età contemporanea come alternativa al cristianesimo e anzi come suo preteso superamento.

Dai teologi ci si deve aspettare quest’opera di discernimento, questa valutazione alla luce del Vangelo delle principali manifestazioni e delle strutture portanti delle culture del nostro tempo. E, quindi, ci si può e ci si deve attendere nuovi e perciò arditi incontri o sintesi tra cultura e fede, tra storia e cristianesimo.

Dai teologi ci si deve attendere un contributo anche a chiarificazione e sostegno dell’appropriazione individuale della fede cristiana e della capacità complessiva della comunità ecclesiale di favorire l’accesso del singolo alla fede. Prima ho cercato di individuare alcuni tratti del cattolicesimo italiano e di indicare la prospettiva pastorale di un cattolicesimo di più assidua frequentazione biblica, di più consapevole esperienza liturgica, di maggiore capacità di testimonianza. Si tratta di una prospettiva largamente indicata nei documenti della Conferenza Episcopale Italiana, ulteriormente rilanciata in forma organica negli orientamenti pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Non a caso gli orientamenti collegano strettamente l’auspicato rinnovamento pastorale in senso missionario con l’impresa del progetto culturale, le sue prospettive e le sue modalità di attuazione (cf. n. 50). È lecito attendersi una qualche realizzazione di questa prospettiva pastorale solo se si riesce ad attrezzare in modo culturalmente e praticamente persuasivo l’idoneità del singolo credente e della comunità a procedere verso le mete indicate. Il contributo dei teologi è davvero prezioso.

Ma lo spazio che la teologia deve cercare non è soltanto uno spazio ecclesiale, bensì anche e necessariamente culturale. Si potrebbe dire che il cammino recente del pensiero teologico si è misurato, da una parte, con il problema della riconquista delle fonti, ampliando l’attenzione al versante biblico, patristico, liturgico, storico-teologico della ricerca e, dall’altra, con il confronto con le correnti ideologiche dominanti del nostro tempo. Questo ha, in qualche modo, rallentato il classico confronto della teologia con le forme del pensiero filosofico e, soprattutto, ha lasciato in ombra un doveroso confronto con la crescente presenza delle scienze non umanistiche nella vita delle persone e delle società. Si sente oggi l’urgenza di una ricerca teologica che affronti in modo metodico il dialogo e il confronto con le correnti filosofiche dominanti, come pure dia criteri circa il problema di come rispondere agli interrogativi posti dalle scienze naturali. Si richiede una teologia maggiormente in dialogo con il nostro tempo.

6. Progetto culturale e Bibbia

Quanto abbiamo detto in genere della teologia e del pensare la fede, va ulteriormente determinato in rapporto al ruolo della Bibbia, al suo studio e alla sua promozione nella vita ecclesiale.

L’attuale approccio alla Bibbia, quello predominante nelle nostre comunità ecclesiali, non va nella direzione di una corretta relazione tra fede e cultura. Da una parte sembra trionfare un biblicismo kerygmatico, che scambia la fede nella potenza insita nella Parola di Dio con la semplice riproposizione delle pagine della Scrittura prescindendo da ogni mediazione culturale. La semplice sovrapposizione di un testo biblico alle situazioni della vita personale, comunitaria o sociale, senza tener conto dell’orizzonte ermeneutico in cui il testo è stato prodotto e dell’orizzonte ermeneutico di coloro che oggi dovrebbero accoglierlo, produce di fatto fenomeni di estraneità ovvero di fraintendimento, veri e propri cortocircuiti interpretativi, in cui il messaggio biblico viene rifiutato perché percepito lontano dall’esperienza dell’uomo contemporaneo, oppure il testo, ovvero la realtà o addirittura ambedue, vengono letti in modo deformato pur di giungere in qualche modo ad un legame.

Accanto a questi fenomeni di biblicismo kerygmatico si sviluppano altre forme di lettura del testo biblico più attente alla dinamica dell’inculturazione, ma anch’esse fortemente parziali nel momento in cui privilegiano un accostamento alla Bibbia per temi, per concetti, per prospettive contenutistiche che sfuggono però di fatto al confronto con la dimensione propriamente storica della pagina biblica. Ne risulta una riduzione dell’evento storico-salvifico a categorie valoriali, che probabilmente entrano più facilmente in dialogo con le voci della cultura contemporanea, ma che nondimeno conducono a un’assimilazione della fede cristiana a ideologia o etica. Diventa così oggi essenziale la riconquista della dimensione propriamente storica dell’evento salvifico, attraverso anzitutto un accostamento diretto dei testi, e non solo delle categorie bibliche, e un accostamento poi non selettivo degli stessi testi, grazie a una valorizzazione creativa del procedimento della “lectio continua”, di cui la stessa liturgia offre svariate possibilità di iniziazione.

Ma una collocazione della Bibbia nella prospettiva del progetto culturale ne deve anzitutto proporre il valore emblematico in rapporto alla dinamica della inculturazione della fede. Nulla meglio di un approccio corretto alla Bibbia può insegnare le strade che conducono la parola della fede a incarnarsi in una cultura. La Bibbia infatti è la testimonianza primaria di come la rivelazione ha trovato forma umana, anzi molteplicità di forme umane, nel variare dei contesti culturali. I vari volti che, ad esempio, assume la presentazione dell’evento salvifico dell’Esodo, dai racconti tribali alle riletture sapienziali o profetiche fino all’utilizzazione neotestamentaria in chiave tipologica, diventano un percorso di appropriazione di corrette modalità con cui continuare nel tempo il passaggio della Parola nella storia.

Un secondo fondamentale apporto la Bibbia può offrire al progetto culturale: esso concerne l’alfabetizzazione fondamentale della fede. La scissione tra fede e cultura è giunta fino alla perdita degli elementi costituitivi dell’espressione della fede. Parole e immagini del linguaggio religioso subiscono anch’esse l’attacco del secolarismo – per cui, ad esempio, il pentimento si riduce a una transazione tra il colpevole confesso di reati e l’amministrazione della giustizia –, ovvero diventano patrimonio condiviso da pochi, settorializzato in base all’appartenenza aggregativa. Perché l’alfabetizzazione della fede non resti affidata a estemporanei e parziali approcci, veicolati magari da agenzie devozionistiche, occorre che esso possa ripartire dal linguaggio irrinunciabile, che fonda tutti i successivi prodotti simbolici, cioè il linguaggio biblico.

Da ultimo, il progetto culturale deve sfuggire al rischio di intendersi e di essere inteso come un processo di conquista e colonizzazione. Esso deve attuarsi all’interno di un processo di incontro interpersonale, in un contesto di dialogo. Di nuovo qui la Sacra Scrittura diventa decisiva. Intendo far riferimento a quella caratterizzazione della rivelazione divina come atto dialogico, che connota la comprensione che di essa offre il documento conciliare Dei Verbum: «Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Strumento dell’integra trasmissione della rivelazione divina, la Scrittura partecipa della natura dialogica della rivelazione e ne continua l’efficacia nel tempo. In questa prospettiva emergono alcune esigenze nell’odierna lettura della Bibbia che diventano decisive per lo stesso progetto culturale: ricostruire un contesto dialogico nell’accostamento al testo sacro, fare del testo sacro lo strumento che avvia un cammino di riconoscimento reciproco tra la pretesa della fede e gli interrogativi dell’uomo contemporaneo, riscoprire all’interno della Bibbia quel cammino dialogico con le culture dei tempi che ha aperto la possibilità alle riletture continue degli eventi salvifici e dei cui criteri occorre appropriarsi per quell’incontro tra Vangelo e cultura che oggi interpella le nostre comunità.

Ho provato ad indicare solo alcuni dei fronti su cui la Bibbia e un suo corretto approccio diventano decisivi per il progetto culturale. Ma, per finire, mi sia consentito dire che sono altrettanto convinto che lo stesso progetto culturale può utilmente essere assunto come luogo di insorgenza di domande al testo biblico che ne possono svelare nuovi reconditi significati. Come è accaduto nelle svolte più proficue della storia della Chiesa, gli interrogativi che la cultura pone alla fede possono diventare anche oggi occasione per aprire nuovi spazi di comprensione dell’unico, immutabile mistero che ci è stato rivelato nel “Vangelo di Dio” che è Cristo Gesù, a cui ogni sapienza umana, anche inconsapevolmente, aspira.

Roma, Pontificio Istituto Biblico
7 maggio 2003, Festa dell’Istituto

+ Giuseppe BETORI