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L’AULA MAGNA DEL BIBLICO: RICORDI E ATTIVITÁ

Lezione del professore R.P. Klemens Stock S.J. tenuta il 4 ottobre 2011 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2011-12 e della Aula Magna completamente ristrutturata.
Con questa lezione il P. Klemens Stock ha concluso anche la sua lunga attività (1971-2010) di insegnamento accademico al Pontificio Istituto Biblico.

Oggi inauguriamo l’anno accademico 2011/12, e inauguriamo questa nuova Aula Magna. Il P. Rettore mi ha chiesto di tenere in questa occasione una conferenza, che per me è anche una lezione di congedo. Lo ringrazio vivamente di questo invito.

Ho pensato dividere la mia lezione in due parti. Nella prima comunicherò alcuni ricordi di ciò che ho vissuto in questa Aula durante gli anni passati; nella seconda tenterò di mostrare brevemente ciò che ho sempre fatto in questo luogo, in cui ho cercato di spiegare brani dei vangeli sinottici.

I. Alcuni ricordi

Il mio primo ricordo va al lontano autunno del 1967, quand’ero studente, e riguarda una lezione di introduzione agli studi biblici tenuta per i nuovi iscritti di quell’anno. In quella occasione parlarono due professori. Il primo spiegò a noi principianti che gli studi biblici sono difficili, che noi eravamo piuttosto ignoranti e che ci voleva un impegno serio e continuo per riuscire negli studi al Biblico. Non era tanto un invito a iniziare questi studi quanto un appello a un serio ripensamento – al costruttore di una torre, al re che va in guerra (cf. Lc 14,28-31) –, per esaminare se si era veramente in grado di affrontare questi studi. L’altro professore, invece, fece vedere il valore e la bellezza degli studi biblici e incoraggiò gli scoraggiati. Gli argomenti di entrambi i professori erano validi.

Nei due anni successivi, studiando il programma per la licenza, ho assistito in questa sala a tante lezioni tenute da maestri cari e competenti; ricordo soltanto alcuni nomi: P. Boccaccio e P. Zerwick, P. Vogt e P. Alonso, P. de la Potterie, P. Lyonnet e P. Vanhoye. Di essi è vivo attualmente solo il P. Card. Vanhoye. Ma anche di tanti altri conservo indimenticabili ricordi. Ciascuno di loro aveva un proprio modo e un proprio metodo di insegnamento e mostrava come si possano studiare sistematicamente, comprendere e spiegare in modo corretto i testi biblici. Il Biblico si affermava come una scuola biblica di grande qualità.

Poi, nel giugno del 1974 in questa Aula ho difeso la mia tesi dottorale: Boten aus dem Mit-Ihm-Sein. Das Verhältnis zwischen Jesus und den Zwölf nach Markus (Messaggeri che vengono dalla comunione con Lui. Il rapporto fra Gesù e i Dodici secondo Marco). Avevo preparato la tesi avendo come moderatore il P. Card. Vanhoye, al quale devo una speciale gratitudine. Il secondo moderatore era P. Francis McCool; gli altri membri della commissione erano P. Zerwick e P. de la Potterie; presiedeva l’allora Rettore dell’Istituto P. (e poi Card.) Carlo M. Martini. In quella occasione la sala era testimone delle mie non poche e non piccole preoccupazioni, ma anche del mio sollievo, quando ho potuto superare quest’ultima tappa della mia formazione.

Ma le prove non erano finite: cambiavano solo carattere, e diventavano prove di insegnamento. Quattro mesi dopo la difesa della tesi, nell’ottobre del 1974, tenni in questa Aula la prima lezione del mio primo corso al Biblico. Non mi mancava la materia per un corso: potevo utilizzare gli studi fatti per la mia tesi; ma dovevo scegliere la lingua di insegnamento e il modo di preparazione. A quel tempo alcuni professori avevano cominciato a insegnare nella lingua italiana, altri continuavano a insegnare in latino. Chiesi al P. Rettore Martini quale dovesse essere la lingua del mio insegnamento. Ed egli mi rispose: “O latino o italiano, come preferisce. Comunque, le consiglio di insegnare in latino”. Io pensai: “Il P. Rettore mi ha lasciato libertà e posso scegliere la lingua. Le fatiche per elaborare il materiale sono le stesse per entrambe le lingue. L’impegno per il latino mi serve solo per la scuola, mentre l’impegno per l’italiano può servirmi anche per la vita a Roma”. Così mi sono deciso a insegnare nella lingua italiana, che da allora avrebbe dovuto sopportare tante mie imperfezioni e sbagli. La preparazione delle lezioni era abbastanza faticosa. Nei primi anni dovevo scrivere ogni parola di ogni frase e far correggere da qualcuno il testo preparato. Di grande aiuto è stato per me l’interesse mostrato dagli studenti nelle lezioni e la constatazione, che potevo fare a fine semestre, durante gli esami: “In genere sono riuscito a farmi capire”. A causa dello spazio, dell’aria e della luce ho sempre preferito insegnare, per quanto era possibile, in questa Aula – fino all’ultimo corso che ho dato nella primavera del 2009 e per il quale ho scelto il tema: “I racconti pasquali nei vangeli sinottici”.

Un'altra esperienza fatta tante volte in questa Aula è stata quella della vigilanza durante gli esami scritti. Dopo aver distribuito i fogli con le domande e dopo aver sempre detto che occorreva innanzitutto riflettere su che cosa veniva domandato, piuttosto che cominciare a scrivere subito qualsiasi cosa, passavo tra i banchi, guardavo qua e là, e mi fermavo di volta in volta: tutto questo per favorire uno svolgimento ordinato dell’esame. Passando vicino alle finestre, vedevo il cortile del Biblico, la fontana e gli alberi da una prospettiva non abituale. Guardavo anche i quadri dei tre Pontefici che hanno un rapporto particolare con il Biblico: San Pio X, in quanto fondatore; Pio XII, che 62 anni fa, nel 1949, ha reso possibile l’ampliamento della sede dell’Istituto e la costruzione di questa Aula Magna; e il Pontefice attuale (per molti anni il beato Giovanni Paolo II, da qualche anno Benedetto XVI che da Cardinale e Presidente della Pontificia Commissione Biblica ogni anno era venuto al Biblico per partecipare alla cena offerta dall’Istituto alla Commissione). Le immagini dei Papi ci ricordano lo scopo del Pontificio Istituto Biblico: quello di essere al servizio della Chiesa universale sotto la guida del Romano Pontefice. La Chiesa universale poi era concretamente presente negli stessi studenti e studentesse che sostenevano l’esame e che provenivano da tanti Paesi e popoli diversi, da tante diocesi e Ordini religiosi. Ogni volta mi faceva impressione vedere la loro concentrazione e il loro impegno nell’elaborare le risposte scritte. Avvertivo sempre con rincrescimento il fatto di conoscere poco i singoli studenti. Nella sala erano raccolti un’immensa ricchezza umana ed ecclesiale, tante culture diverse, tanti caratteri, tante esperienze di vita, tante opinioni e conoscenze: vedevo soltanto le facce di quelle persone, ma non conoscevo le persone. Questo mi faceva pensare a quanto sia necessaria l’attenzione al rispetto reciproco e alla stima personale vicendevole. Queste riflessioni non erano possibili durante le lezioni, ma fanno parte dei miei ricordi, quando penso a questa sala; e in questo senso la mia presenza agli esami completava in modo prezioso la presenza per l’insegnamento.

II. Alcune attività

Dopo questi ricordi, intendo ritornare brevemente all’attività abituale che svolgevo in questa Aula: la spiegazione di brani sinottici. Qui vorrei proporre come esempio la spiegazione di un unico versetto, Mc 9,7. Nell’Antico Testamento Dio parla spesso agli uomini, in particolare al popolo d’Israele, attraverso Mosè e attraverso i profeti (per es. Es 19,3-6; 2 Cr 36,15-16; Ger 25,4). Nel Nuovo Testamento il parlare diretto di Dio scompare quasi completamente. I vangeli sinottici riferiscono che Dio parla soltanto in due occasioni. Dopo il battesimo di Gesù Dio si rivolge a lui e gli dice: “Tu sei il Figlio mio, il prediletto: in te ho posto il mio amore” (Mc 1,11; cf. Mt 3,17; Lc 3,22). Durante la trasfigurazione di Gesù, Dio dice ai tre discepoli che Gesù ha portato con sé sul monte: “Questi è il Figlio mio, il prediletto: ascoltatelo!” (Mc 9,7; cf. Mt 17,7; Lc 9,35). Il fatto che questa sia l’unica parola che Dio rivolge a un gruppo di discepoli di Gesù fa pensare che essa abbia un significato particolare. Cercherò di sviluppare l’indagine sulla parola in tre momenti: 1) Studiamo la parola stessa; 2) ne consideriamo il significato all’interno del racconto della trasfigurazione di Gesù; 3) ne consideriamo l’importanza per il rapporto dei discepoli con Gesù.

1. La parola di Dio

La parola di Dio è composta da due elementi: una rivelazione e un comando. Dio rivela Gesù come il suo Figlio prediletto, e ordina ai discepoli di ascoltarlo. Vediamo ora questi due elementi.

1.1. La rivelazione del Figlio prediletto

Il termine “figlio” (hyios), al singolare, ricorre al singolare in Marco 31 volte: quasi sempre, 29 volte, viene applicato alla persona di Gesù, mentre negli altri due casi restanti, cioè in 9,17 e 10,46, viene usato per persone umane, di cui viene indicato anche il padre. Ma i modi in cui questo termine viene usato e le persone che lo utilizzano sono diversi. Solo Gesù usa le espressioni “il figlio dell’uomo” (14 volte) e “il figlio” (1 volta, in 13,32), sempre in funzione di soggetto della frase e facendo un’affermazione su di essi. Negli altri casi il termine non viene usato da Gesù, ma da altre persone, e non come soggetto, ma come parte del predicato, quando viene fatta un’affermazione per caratterizzare la persona di Gesù. Gli abitanti di Nazaret chiamano Gesù “il figlio di Maria” (6,3), caratterizzandolo mediante il rapporto vitale e fondamentale con sua madre. Bartimeo chiama Gesù “figlio di Davide” (10,47.48), facendo riferimento alla sua appartenenza a questa famiglia regale e alle aspettative legate ad essa. Più tardi Gesù ricorderà l’insegnamento degli scribi che il Cristo è figlio di Davide e lo metterà in dubbio (12,35-37). Alcuni demoni chiamano Gesù “figlio di Dio” durante la sua attività pubblica e vengono sgridati e messi a tacere da Gesù (3,11; 5,7). Il sommo sacerdote chiede a Gesù se egli è “il Cristo, il figlio del Benedetto” e qualifica la risposta affermativa di Gesù come bestemmia (14,61-64). Dopo la morte di Gesù, il centurione pagano sotto la croce (15,39) e l’evangelista, nella prima frase della sua opera (1,1), chiamano Gesù “figlio di Dio”.

Nel vangelo di Marco Gesù è quasi l’unica persona di cui si menziona la “figliolanza”. D’altra parte, tra le denominazioni che si applicano a lui (per esempio: maestro, Cristo, re, signore, profeta ecc.), quella di figlio è la più frequente. Ciò che interessa soprattutto è la sua ‘figliolanza’, la sua appartenenza secondo vari aspetti. Essenziali per la persona e per la conoscenza di Gesù sono i rapporti in cui egli si trova.

Anche Dio parla della figliolanza di Gesù e lo chiama “il mio Figlio prediletto” (ho hyios mou ho agapetos, 1,11; 9,7). Questa espressione è del tutto singolare: viene usata solo da Dio, e solo per Gesù, ed è l’unica affermazione di Dio nei confronti di Gesù. Essa esprime la singolare appartenenza di Gesù a Dio, il singolare rapporto che esiste tra Dio e Gesù. Questo è l’unico contenuto che Dio comunica ai discepoli. Nessuna cosa è tanto importante per il loro rapporto con Gesù quanto la loro conoscenza del rapporto di Dio con lui. Dio lo comunica ad essi con la sua autorità divina assoluta.
La parabola del proprietario di una vigna, dei suoi inviati e dei vignaioli malvagi (Mc 12,1-12) mostra e sottolinea che l’espressione ‘figlio prediletto’ non indica tanto una funzione o un incarico di Gesù, quanto il suo rapporto personale con Dio. Nella parabola, l’incarico è lo stesso per tutti gli inviati del proprietario: essi devono richiedere la parte della vendemmia che spetta al proprietario. Tutti gli inviati vengono chiamati “servi” (12,2.4), eccetto l’ultimo. Questi viene messo in rilievo in diversi modi: è l’ultimo che è rimasto al proprietario, viene espressamente chiamato figlio prediletto, ultimo inviato ed erede (12,6-7), e la sua uccisione provoca un intervento energico del padrone. In tutto ciò si manifesta il suo singolare rapporto personale con il proprietario della vigna, che rappresenta Dio.

Il titolo “il mio Figlio prediletto” esprime un singolare rapporto personale e cordiale tra Dio e Gesù. La conoscenza di questo rapporto non è dovuta all’intelligenza umana dei discepoli, né a una dichiarazione di Gesù, ma soltanto a una rivelazione che proviene da Dio Padre, il quale è l’unico che conosce il Figlio (cf. Mt 11,27; 16,17; Gal 1,15-16). Solo Dio sa qual è il rapporto di Gesù con Lui; solo il Padre può rivelare che Gesù è il suo Figlio prediletto. I discepoli hanno il compito di capire sempre più l’importanza del fatto che in Gesù essi hanno presso di sé il Figlio prediletto di Dio. Dio stesso indica loro la conseguenza più importante di questo fatto: “Ascoltatelo!”.

1.2. Il comando divino di ascoltarlo

Il comando “Ascoltatelo!” è l’unico comando di Dio che ci viene riferito da Marco. Esso non viene esplicitato con dei contenuti, ma è completamente riferito alla persona di colui che Dio ha appena rivelato. Il loro ascoltare deve essere caratterizzato dal sapere che Gesù è il Figlio prediletto di Dio. A questo fatto devono corrispondere l’attenzione, l’interesse e l’intensità del loro ascoltare. Al primo posto non ci sono i contenuti, ma la persona del Figlio prediletto che li comunica. Le sue parole devono essere recepite, in modo chiaro e consapevole, come le parole del Figlio prediletto di Dio. Vogliamo ora riflettere sull’importanza del fatto che Dio mette al centro la persona del suo Figlio prediletto, tenendo conto delle circostanze della trasfigurazione di Gesù.

Il comando di Dio “Ascoltatelo!” è preceduto da tanti richiami di Gesù all’ascoltare. Egli inizia il suo primo grande discorso, il discorso delle parabole (4,3-34), con l’esortazione: “Ascoltate!” (4,3) e ripete due volte: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (4,9.23). Il tema principale di questo primo discorso è proprio quello di mostrare il modo giusto di ascoltare. Anche nel suo successivo discorso Gesù chiede: “Ascoltatemi tutti e intendete bene!” (7,14).

Dagli insegnamenti di Gesù si può desumere una certa dottrina sull’ascoltare. L’ascoltare deve essere seguito dall’accogliere e fruttificare (4,20). È minacciato da pericoli seri (4,15-19). Deve essere accompagnato dall’intendere (7,14: 8,17-21), che presuppone una grande attenzione a ciò che viene ascoltato (4,24-25). E colui che ascolta e intende, deve essere luce (4,21-23), deve comunicare agli altri ciò che ha ricevuto. Attraverso gli insegnamenti di Gesù i discepoli sono preparati a ricevere il comando di Dio. Quest’ultimo conferma le istruzioni di Gesù e rivela che colui che li istruisce è il Figlio prediletto di Dio e mette al centro dell’ascoltare la consapevolezza che Gesù è il Figlio prediletto di Dio.

2. La parola di Dio nel contesto della trasfigurazione di Gesù

La voce di Dio si rivolge ai tre discepoli, ma tutti gli avvenimenti che si verificano prima e dopo la parola rivolta da Dio sono in loro favore. Questo viene messo particolarmente in rilievo da Marco. I tre discepoli vengono condotti sul monte da Gesù (9,2). Egli viene trasfigurato davanti ai loro occhi (9,3). A loro appaiono Mosè ed Elia (9,4). Essi sono spaventati e Pietro parla a nome di tutti (9,5-6). Essi vedono con sé solo Gesù (9,8). A loro Gesù ordina di non parlare di questo episodio fino alla sua risurrezione (9,9). La voce di Dio rappresenta il culmine di tutti questi eventi, che sono orientati alla formazione dei tre discepoli, alla loro più profonda conoscenza della persona di Gesù.

Gesù ha portato con sé sul monte soltanto tre discepoli. Ma già il numero “tre” fa capire che si tratta di tre testimoni (cf. Dt 19,15; Mt 18,16; Gv 8,16-17). E il divieto di Gesù di parlare della loro esperienza prima della sua risurrezione implica il comando di darne testimonianza dopo la risurrezione (cf. 2 Pt 1,16-18). Mediante tutti questi avvenimenti la mente dei discepoli si deve aprire alla comprensione della persona di Gesù e del loro agire giusto.

La voce di Dio rivela un rapporto singolare di Gesù con Dio. Ma anche gli altri eventi accennano a una particolare appartenenza di Gesù al mondo di Dio. Gesù non trasforma se stesso, ma viene trasformato da Dio nella figura in cui appare ai tre discepoli (9,2). Le sue vesti sono di un bianco che a nessun uomo con tutti i suoi sforzi è possibile ottenere (9,3), e sono caratteristiche della figura che Gesù avrà nel mondo di Dio. Anche i suoi interlocutori, Mosè ed Elia, non appartengono al mondo terreno, ma a quello di Dio. Questi fenomeni preparano la rivelazione del rapporto singolare di Gesù con Dio, e vengono confermati e interpretati da essa.

Dobbiamo mostrare ancora in modo particolareggiato il significato speciale di alcune di queste circostanze. Di grande significato è il fatto che Dio rivolge la sua parola ai tre discepoli alla presenza di Mosè ed Elia. L’Antico Testamento menziona i due insieme solo in Ml 3,22-24. Mosè rappresenta la Legge (cf. Mc 1,44; 7,10; 10,3; 12,26); è il mediatore attraverso il quale Dio ha dato al suo popolo le norme dell’agire giusto. Elia rappresenta i Profeti, che hanno il compito di ricondurre il popolo ribelle e infedele al Signore loro Dio. Ad Elia spetta anche il compito speciale di preparare la venuta del Signore (cf. Ml 3,23-24; Mc 1,2; 9,11-13). Dio finora ha parlato e ha comunicato la sua volontà al suo popolo mediante Mosè e i profeti. Ad essi compete anche in modo particolare il titolo di “servo del Signore”. Mosè più volte viene designato con tale titolo (cf. Gs 14,7; Ml 3,22; Eb 3,5, Ap 15,3), ed Elia viene chiamato “servo del Signore” insieme con gli altri profeti (cf. 2 Re 17,23). Distinguendo chiaramente Gesù da questi suoi due principali servi, Dio lo chiama “il suo Figlio prediletto” (cf. Mc 12,1-6; Eb 1,1-2; 3,5-6), e alla presenza dei due servi incarica i tre discepoli di ascoltare il suo Figlio prediletto. Da quando il Figlio è venuto ed è presente nel mondo, l’attenzione dei discepoli non deve essere più rivolta ai servi, ma al Figlio. Così, in modo fondamentale e programmatico, si stabilisce il rapporto tra la rivelazione di Dio mediante la Legge e i Profeti (Antico Testamento) e la rivelazione di Dio mediante il suo Figlio (Nuovo Testamento). L’Antico Testamento non deve essere più ascoltato come parola di Dio in se stesso e indipendentemente dal Figlio, ma solo nella misura e nel modo in cui viene accolto e interpretato dal Figlio (cf. Mt 5,21-48; Mc 10,2-12; Gv 1,17; Gal 4,4-7; Eb 1,1-2).

Il rapporto con l’Antico Testamento, che si manifesta attraverso le persone, si manifesta anche attraverso il luogo e altre circostanze della trasfigurazione. Gesù ha condotto i tre discepoli su un alto monte, dove Dio si rivolge ad essi da una nube alla presenza di Mosè ed Elia. Così ci sono diverse allusioni al monte Sinai/Oreb, con il quale è particolarmente connessa la rivelazione di Dio. Sul Sinai la nube indica la presenza di Dio, e Dio parla dalla nube (cf. Es 19,9, 20,21, 24,16). Mosè ed Elia sono gli unici grandi personaggi dell’Antico Testamento che hanno un particolare legame con il Sinai/Oreb e con la rivelazione di Dio su questo monte. Mosè, in quanto mediatore tra Dio e il popolo, ha ricevuto la Legge sul Sinai, dove Dio ha stipulato la sua alleanza con il popolo d’Israele (Es 19–40). Elia, in quanto profeta perseguitato e minacciato di morte, è fuggito all’Oreb, dove ha avuto un incontro particolare con Dio e ha ricevuto nuovi compiti da Lui (1 Re 19,1-18). Pertanto ci sono tanti motivi per paragonare la rivelazione di Dio sul monte della trasfigurazione con la rivelazione di Dio sul Sinai. Prendiamo ora in considerazione solo l’inizio della rivelazione sinaitica.

Al Sinai Dio dice a Mosè (e a Israele): “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna…” (Es 20,2-4; Dt 5,6-8). A queste parole fa seguito il decalogo e fanno seguito molte disposizioni legali. Sul monte alto Dio dice ai tre discepoli (che sono i testimoni): “Questi è il Figlio mio, il prediletto: ascoltatelo!” (Mc 9,7). Al Sinai Dio rivela innanzitutto se stesso e il suo rapporto con il popolo, cioè dice chi è lui per questo popolo e che cosa ha fatto in favore di questo popolo. Sul monte alto Dio non rivela se stesso, ma rivela Gesù come suo Figlio prediletto. Ma più precisamente dobbiamo dire che anche qui Dio rivela se stesso, perché, rivelando Gesù come suo Figlio prediletto, rivela se stesso in quanto Padre di Gesù, che ama suo Figlio. Dio rivela l’uguaglianza di Gesù con sé, rivela che Gesù si trova al suo stesso livello e al suo fianco. Al Sinai poi seguono molte disposizioni che riguardano il comportamento giusto del popolo d’Israele. Tutte sono fondate nella posizione che Dio ha nei confronti di questo popolo. I primi comandamenti regolano il comportamento del popolo nei riguardi di Dio stesso: “Non avrai altri dèi di fronte a me…” (Es 20,3-7). Anche sul monte alto il primo comandamento riguarda colui che è stato appena rivelato ed è fondato nel suo rapporto con Dio: “Ascoltatelo!” (Mc 9,7). Questo comandamento segue immediatamente la rivelazione e regola il comportamento verso la persona rivelata; pertanto corrisponde, per la sua posizione e per il suo contenuto, ai comandamenti del Sinai che regolano il comportamento verso Dio (cf. Es 20,3-7). Inoltre, esso condivide il carattere esclusivo dei comandamenti che riguardano Dio. Come Israele non deve avere altri dèi di fronte al Signore, così i discepoli devono ascoltare soltanto il Figlio prediletto di Dio. Non solo la rivelazione precedente (“Questi è il Figlio mio, il prediletto”), ma anche questo comandamento mettono Gesù accanto a Dio e hanno una singolare importanza. Questa importanza viene sottolineata e accresciuta dal fatto che c’è solo questo unico comandamento. Al Sinai alle parole iniziali di Dio fa seguito il decalogo e fanno seguito molte leggi. Al monte della trasfigurazione ogni comando di Dio sul giusto comportamento è riassunto nella parola: “Ascoltatelo!”. Continuando il paragone con il decalogo, possiamo dire che questa parola, in quanto corrisponde ai comandamenti che riguardano il comportamento verso Dio, appartiene alla cosiddetta prima tavola; e allora dobbiamo constatare che non c’è una seconda tavola. Possiamo anche dire che nell’Antico Testamento abbiamo le dieci parole (i dieci comandamenti) e parliamo di “decalogo”, mentre nel Nuovo Testamento abbiamo questa unica parola di Dio (questo unico comandamento), e in questo senso potremmo parlare di “monologo” del Nuovo Testamento, che dice appunto: “Ascoltatelo!”.

Questa considerazione sulla parola rivolta da Dio ai tre discepoli nel contesto della trasfigurazione ci fa capire di nuovo il carattere singolare di tale parola e anche la posizione singolare di Gesù. Dio dice questa unica parola, attraverso la quale rivela il suo Figlio prediletto (e se stesso come Padre di questo Figlio), e nella quale indica il giusto comportamento verso suo Figlio. Per tutto il resto i discepoli sono indirizzati al Figlio. Egli è per loro “la parola di Dio”, attraverso la quale essi ricevono la vera conoscenza di Dio e anche la conoscenza dell’agire giusto.

3. La parola di Dio e il cammino dei discepoli con Gesù

La trasfigurazione di Gesù, e con essa la parola rivolta da Dio ai tre discepoli, occupa un determinato posto nel cammino dei discepoli con Gesù. Quindi vogliamo esaminare anche quale sia la portata di tale parola per questo cammino, quale sia il suo influsso sulla conoscenza di Gesù e sul comportamento verso Gesù da parte dei discepoli.

La domanda: “Chi è Gesù?”, è fondamentale sin dall’inizio per il cammino dei discepoli con Gesù. Qui non abbiamo il tempo di mostrarne tutti i particolari. La parola di Dio costituisce il culmine per la rivelazione e per la conoscenza di Gesù, quanto al contenuto e quanto all’autorevolezza. Questa parola mostra qual è il rapporto personale che c’è tra Dio e Gesù. Nella passione di Gesù viene posta l’alternativa: Gesù è veramente il Figlio di Dio, o è un bestemmiatore di Dio? (cf. Mc 14,61-64; 15,39). L’intervento potente di Dio, che risuscita Gesù dai morti, conferma definitivamente la parola di Dio: Gesù è veramente il Figlio prediletto di Dio.

A partire dalla loro chiamata, i discepoli hanno ascoltato e accettato la parola di Gesù (Mc 1,16-20). Durante tutto il loro cammino con Gesù la caratteristica dei discepoli è che essi seguono Gesù e ricevono da lui, oltre all’insegnamento rivolto a tutto il popolo, una particolare istruzione (cf. 4,34; 7,17-23) ed esperienze particolari della sua persona (cf. 4,35-41; 6,45-52; 8,14-21). Talvolta l’evangelista riferisce che i discepoli non comprendono Gesù e che Gesù si meraviglia della loro incomprensione (cf. 4,13.40; 7,18; 8,17-21); ma non dice mai che i discepoli abbiano rifiutato di ascoltare Gesù. Così viene presentato il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli durante la sua attività in Galilea (Mc 1,14--8,26).

Gesù lascia la Galilea assieme ai discepoli, si reca dapprima nella regione di Cesarea di Filippo (8,27) e poi inizia con loro il cammino verso Gerusalemme. Durante questo cammino egli si occupa solo dei discepoli, con poche eccezioni (cf. 9,14-27; 10,1-22.46-52). Gesù istruisce più volte soltanto loro, escludendo tutti gli altri (cf. 9,30-31), sul fatto che egli, secondo il piano salvifico di Dio (‘dei’), sarà riprovato dal sinedrio, sarà ucciso e dopo tre giorni risusciterà (8,31; 9,31; 10,33-34).

Dopo la prima istruzione di Gesù, Marco riferisce: “Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo” (8,32). Qui si verifica un completo cambiamento nell’atteggiamento dei discepoli. Non si tratta più di una loro incomprensione passiva, per così dire, ma di un loro rifiuto attivo: essi non vogliono ascoltare e accettare l’insegnamento di Gesù. Egli reagisce con grande fermezza, rimproverando Pietro: “Va’ dietro a me, satana. Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (8,33). “Su, dietro a me!” (1,17) è stata la prima parola che Gesù ha indirizzato a Simone e Andrea. In questo modo li ha chiamati e ha stabilito una volta per sempre il loro rapporto reciproco: egli è il maestro ed essi sono i discepoli; egli parla e determina il cammino ed essi lo ascoltano e lo seguono. Pietro si è allontanato da questo rapporto, e viene rimesso in esso, in modo esplicito e preciso, dalla parola di Gesù: “Va’ dietro a me!”. Le successive parole di Gesù mostrano quanto l’agire di Pietro sia contrario al piano e alla volontà di Dio. Gesù chiama Pietro “satana” – satana è caratterizzato dal fatto di essersi ribellato a Dio e di impegnarsi continuamente a spingere le creature di Dio ad agire contro Dio. Gesù dice a Pietro esplicitamente da che cosa è determinato il suo pensiero e desiderio: non dalla volontà di Dio, ma dal volere umano, naturale e spontaneo.

È proprio a questa profonda crisi che fa seguito, dopo sei giorni (9,2), la trasfigurazione di Gesù. La parola di Dio rivolta a Pietro, Giacomo e Giovanni è la risposta di Dio a questa crisi. Essi devono sapere che colui che viene respinto e ucciso dagli uomini non è solo il Cristo, come ha confessato Pietro (8,29), ma è il Figlio prediletto di Dio. Essi devono ascoltare e accettare il fatto che Gesù sarà respinto e ucciso e dopo tre giorni risusciterà, sebbene questo vada contro i loro desideri e le loro aspettative. La parola di Dio è innanzitutto la presentazione di colui che ha parlato in questo modo, e mostra che non il rifiuto, ma l’incondizionato ascolto è il giusto comportamento nei suoi confronti.

Ascoltare significa quindi riconoscere questo Gesù consegnato, riprovato e ucciso dagli uomini e risuscitato da Dio come il Figlio prediletto di Dio. Ascoltare significa anche accettare il suo cammino per se stessi ed essere pronti a seguirlo, rinunciando ad altri desideri per la propria vita (cf. 8,34-38).

Quanto sia difficile ascoltare Gesù, lo capiamo dal successivo comportamento dei discepoli. Essi non si occupano del secondo annuncio della sorte dolorosa di Gesù (9,31-32), ma discutono tra di loro su chi sia il più grande (9,34). Non ascoltano l’insegnamento di Gesù sul servizio (9,35-37), ma Giacomo e Giovanni gli chiedono i primi posti (10,35-40), provocando la rabbia degli altri dieci (10,41), e costringendo così Gesù a fare un altro insegnamento sul servizio (10,42-45). Il non-ascoltare raggiunge il suo culmine quando i discepoli, dopo l’arresto di Gesù, fuggono e non lo seguono più. Ma Gesù, predicendo la loro fuga (14,27), annuncia anche: “Dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea” (14,28). Con il comando: “Va’ dietro a me” (8,33), Gesù ha rimesso Pietro al posto che gli spetta. Con l’annuncio: “Vi precederò in Galilea”, dice che egli, in quanto Signore risorto, sarà di nuovo il loro maestro, e li invita di seguirlo di nuovo, a riprendere il posto di discepoli. La fedeltà e il perdono di Gesù superano la fuga dei discepoli e ridanno ad essi la possibilità di ascoltare Gesù risorto.
Abbiamo dunque esaminato la singolare parola di Dio: “Questi è il mio Figlio, il prediletto: ascoltatelo!”, e abbiamo notato la sua particolare concentrazione sulla persona di Gesù. Lo stesso fenomeno si manifesta nella situazione dei discepoli che l’evangelista segnala dopo la trasfigurazione: “Guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (9,8). Dopo la rivelazione data da Dio Padre, i discepoli sanno che Gesù è il Figlio prediletto di Dio, e che devono e possono ascoltarlo incondizionatamente. Ad essi basta avere Gesù solo, con loro.

Conclusione

In una delle sue lettere san Girolamo, patrono di noi esegeti, di cui abbiamo celebrato la festa venerdì scorso, scrive a proposito degli studi della Sacra Scrittura: “Vivere tra queste cose, meditare queste, non conoscere altro, non cercare altro, non vi pare che sia un’oasi di paradiso già qui in terra?” (Ep. 53,10). Papa Pio XII cita queste parole nella sua enciclica Divino afflante Spiritu (EB 569). Riprendendo questa parola di san Girolamo, posso dire: “40 anni al Biblico, 40 anni in Paradiso”. Ho cominciato il mio servizio al Biblico nel 1971, insegnando il proseminario di metodologia, e ho finito nel 2009/10, moderando un seminario. Al Biblico ho fatto l’esperienza di cui parla san Girolamo: l’esperienza della gioia di poter studiare la parola di Dio, di poter comunicare i frutti dello studio e di poter introdurre non pochi studenti ai modi e metodi dell’esegesi.

Con la conclusione della mia relazione giunge anche il momento del ringraziamento. La mia profonda gratitudine va innanzitutto a Dio. Esprimo poi un sentito grazie ai miei maestri, specialmente al P. Card. Vanhoye, a tutti i miei colleghi, a tutti quelli che hanno lavorato al Biblico in questi anni, specialmente alla Segreteria, alla Biblioteca e all’Amministrazione delle pubblicazioni, con i loro direttori. Un grazie particolare alla Sig.ra Maria Grazia Franzese e al Sig. Carlo Valentino. Infine, vivi ringraziamenti a tutti quelli che mi hanno ascoltato attentamente e pazientemente in questa Aula Magna, compresi gli ascoltatori di oggi.

Concludo con l’augurio che questa Aula Magna, splendidamente rinnovata, possa servire per molti anni all’attività del Pontificio Istituto Biblico, resa feconda dalla benedizione di Dio.